mercoledì 7 maggio 2014

Ancora vignaioli (Gino Pedrotti) ed ancora caci, che monotonia...

I recenti vagabondaggi per il trentino "vignaiolo" ci hanno condotto stavolta a Pietramurata, in Valle dei Laghi.
Qui ha sede l'azienda agricola Gino Pedrotti, in un accogliente e rustico casolare che ospita anche l'osteria si famiglia "Pedrotti Bar".
L'attività è attualmente in mano ai tre figli dei signori Gino e Rosanna: ed è a Giuseppe, in particolare, che spettano i compiti di agronomo ed enologo aziendale... nonché di mescitore dei vini durante la nostra visita.


In Giuseppe Pedrotti troviamo una persona dall'aspetto buono e dai modi semplici e gentili ma, al contempo, determinata, rigorosa e dedita nel suo lavoro.
Ad ogni modo, ci tratta con un'ospitalità incredibile... anzi, nemmeno poi così incredibile, perché i "piccoli" vignaioli trentini, visita dopo visita, ci stanno abituando al loro senso di accoglienza contadina.
Parlandoci, inoltre, mostra di avere (oltre ad una netta inflessione dialettale) una concezione ben precisa del suo "ruolo" di vignaiolo: un interprete autentico della vigna e dei suoi frutti - così ci sembra che si veda - che assecondando le tendenze del suolo, delle piante e dell'uva, sia dentro al campo che nella cantina, le dirige verso alti risultati qualitativi.
Anche per questo ha ottenuto la certificazione biologica e, da anni, studia e rispetta le pratiche agricole della biodinamica.
Le medesime aspirazioni spiegano anche perché - come altri vignaioli già incontrati - abbia abbandonato la DOC "Trentino" a favore dell'IGT "Vigneti delle Dolomiti". Si tratta di una scelta "politica", mossa sia dal dissenso verso il "lassismo" del disciplinare DOC (che risponde più ad esigenze di quantità che di qualità), sia dal disappunto per una politica provinciale troppo spesso rivolta solo all'ascolto delle grosse Cooperative.
Nella soffitta-fruttaio

Nella soffitta- fruttaio (l'espressione di Giuseppe non è rancore ma mimica casuale!... Speriamo lui non ce ne voglia...)
Tornando all'azienda, la famiglia Pedrotti è proprietaria di otto piccole vigne (per 5 ha totali) tutte situate nei dintorni di Pietramurata, attorno alla cantina oppure affacciate sul lago di Cavedine.
I vigneti sono condotti senza trattamenti chimici (solo rame e zolfo) e la concimazione è favorita dal letame naturale, dai preparati biodinamici e dalle pratiche di sovescio. L'allevamento avviene sia a pergola (per i vecchi impianti) sia a guyot (per quelli recenti).
Per la vinificazione, le uve vengono spesso e volentieri vendemmiate tardivamente (per lo meno la nosiola, la schiava ed il cabernet franc) e si procede a macerazioni sulle bucce anche per le uve bianche (allo scopo di limitare al massimo l'uso dei solfiti).
Le fermentazioni sono tutte spontanee attraverso i lieviti indigeni.


L'altra sera abbiamo aperto il loro Vigneti delle Dolomiti IGT L'Auro 2010, uvaggio di cabernet franc e merlot (quest'ultimo minoritario, giusto per smussare), vinificato e maturato per due anni in legno.
Nel bicchiere ha un colore purpureo-granato, luminoso e di discreta intensità.
I profumi rimandano soprattutto alla frutta matura (ciliegie e prugne), assieme però a sentori aromatici (rosa canina) e di tè, in un sottofondo di note speziate e minerali.
In bocca è di medio corpo, morbido ma con una piacevole acidità ed un tannino abbastanza levigato, ed un finale lievemente amaro.
In definitiva, si tratta di un vino semplice ma caratterizzato, godibile e di buona beva.


Ci accompagnamo due formaggi, ultima parte del malloppo raggranellato all'Eataly Lingotto di Torino.
Si comincia con un Petit Pont L'Évêque AOP "Marie Harel" della fromagerie Gillot (di Saint Hilaire de Briouze) è un formaggio della Normandia, a pasta molle e crosta lavata, e senz'altro grasso (almeno il 45% per disciplinare).
Questo cacio fa la sua apparizione nella storia sin dal XII sec., quale creazione dei monaci cistercensi stanziati a Cael, ed è oggi prodotto nelle regioni della Bassa e dell'Alta Normandia e nel dipartimento di Mayenne: tutte zone molto fertili connotate da un clima mite ed umido e da suoli argillosi.
Il formaggio si ottiene da latte vaccino crudo (ma il disciplinare ammetterebbe anche la pastorizzazione), fatto acidificare e poi coagulare con caglio di vitello; la cagliata - mi sembra di capire - viene sottoposta a stufatura al caldo per alcuni giorni, prima della salatura.
Stagiona per almeno 15 giorni a temperature di 11-14°C, le quali, assieme ai lavaggi, consentono lo sviluppo dei caratteristici batteri del rosso (Brevibacterium linens).


Il nostro pezzo si presenta in forma parallelepipeda-quadrata, dentro ad una crosta bianca da cui affiorano macchie ramate, ammuffita, ruvida e secca.
La pasta è invece paglierina con occhiature irregolari piccole e medie; la struttura al tatto è liscia, tenera ed abbastanza elastica.
Gli odori sono mediamente intensi e fini, di latte cotto, nocciola, fieno e zolfo (ricorda un po' la pipì stantia), con note un po' cremose ed un po' animali (di pelle e cuoio).
In bocca è in equilibrio tra dolcezza (media) e sapidità, con prevalenza di quest'ultima (medio-elevata). E' deformabile, tenero, untuoso e leggermente adesivo, di bassa solubilità.
Buona peraltro la persistenza.
Si abbina piuttosto bene con il L'Auro, abbastanza morbido da compensare la sapidità del cacio, ma tannico e caldo quanto basta per ripulire la bocca.

Il secondo cacio è Castelmagno d'alpeggio DOP dell'azienda La Meiro - Terre di Castelmagno (con sede per l'appunto a Castelmagno).
Anche questo formaggio ha un'antichissima tradizione produttiva, che in questo caso risale almeno al XIII secolo, e si produce solo nel Comune omonimo ed in quelli contigui di Pradleves e Monterosso Grana (tutti in provincia di Cuneo).
Il latte è interamente vaccino (ma il disciplinare ammetterebbe anche aggiunte ovicaprine) e - data la menzione "d'alpeggio" - è stato munto e lavorato presso le malghe locali durante i mesi estivi.
In particolare, il latte viene lavorato a crudo, dopo una parziale scrematura per affioramento, e coagula a 30-38°C grazie al caglio liquido di vitello, per un periodo che può variare dai 30 ai 90 minuti.
La cagliata viene rotta a "chicco di mais", poi estratta, pressata e sgrondata per almeno 18 ore.
Viene quindi fatta acidificare mediante maturazione di 2-4 giorni nel siero delle precedenti lavorazioni, per essere poi "frugata", cioè rotta finemente e rimescolata, con contestuale salatura della pasta.
E' quindi immessa nelle fascelle di legno dove viene pressata per un giorno.
Il nostro pezzo è maturato in grotte di tufo fredde (10°C) ed umide (90%) per almeno sei mesi (essendo "d'alpeggio").
Poi, a dire il vero, ha trascorso una brutta settimana in frigo in attesa di questa cena... E pare che ciò abbia influito parecchio, ahinoi... (almeno, a confrontarlo con gli altri Castelmagno assaggiati in passato).


Ha una crosta ocra con muffe bianche, dura, secca e ruvida.
La pasta è color avorio, ma con un sottocrosta ocra molto spesso e pronunciato; è secca, semidura e friabile.
Ci sentiamo profumi di latte cotto e fieno, con accenni fermentati, e note di animale (stalla) che si fanno via via più pronunciate avvinandosi alla crosta. Un po' monocorde rispetto a quanto ci attendessimo.
In bocca ha una leggera dolcezza iniziale, seguita dall'acidità di poco più intensa (medio-leggera) e da una netta sapidità (medio-elevata), per concludersi con un sapore amaro-erbaceo di media intensità (la cui presenza è normale ma forse in questo caso un po' eccessiva).
Il tutto accompagnato da una leggera sensazione piccante. La struttura è friabile e leggermente solubile.
Alla fine, delude un po' le nostre aspettative, e non lega neppure bene con L'Auro pedrottiano, data la sua amarezza che viene accentuata fin troppo dai tannini del vino, i quali lasciano la bocca sgradevolmente disisdratata.

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