mercoledì 30 aprile 2014

Torino for dummies.

Torino - per quello che riusciamo a carpirne in due giorni di visita - appare una città molto ricca ed evoluta sotto il profilo culturale... e questo vale anche per la cultura enogastronomica!
Tanti sono gli spunti che ci offre per mangiare e bere (bene) e vale, quindi, la pena appuntarci i più significativi.

Al Bicerin

Cioccolatari.
Ne proviamo due, incappando - senza volerlo - nelle due facce della gastronomia torinese.
"Al bicerin" di piazza della Consolata è un locale defilato, antico, quasi un pezzo di antiquariato che bisogna andare a cercare; pacato e suggestivo lui, semplici e cordiali (ma taaanto flemmatiche) le due anziane signore che lo gestiscono.
Si respira un'atmosfera serena (e voluttuosa) tra i suoi tavolini all'aperto, affacciati sulla chiesa della Consolata, su due fette di torta e - appunto - su un bicchiere di "bicerin".
"Guido Gobino" è agli antipodi: locale rampante, ricercato, si mette in mostra lungo la "gastronomica" via Lagrange. E' il più famoso e chic di torino, ed i suoi prodotti - in effetti - sono davvero ottimi.
Un po' fastidioso però l'atteggiamento tra lo smorto e lo snob dei suoi commessi.

Eataly Lingotto.
Ci ha lasciato con davvero con l'amaro in bocca. La vivibilità dell'ambiente è scarsa, di certo peggiore rispetto a quella di tanti "normali" supermercati: quasi ovunque gli spazi sono strettissimi e costringono a file continue e ad un costante movimento per lasciar passare il cliente successivo; con l'eccezione del reparto enoteca, bisogna fare fatica per soffermarsi sui prodotti esposti, peggio che ai "mercati delle pezze".
Anche i ristorantini sono deludenti: a parte la povertà dell'offerta di bevande (sembra un franchising Fontanafredda, Baladin-Lurisia e Peroni), ci sorprende proprio il mediocre livello qualitativo.
E questo con riguardo sia alle preparazioni (ci servono una lasagna di verdure scotta che fa rimpiangere la mensa universitaria), sia - e soprattutto - alla presentazione dei prodotti da parte del personale: per dire, neppure chiedendo espressamente chiarimenti alle commesse riusciamo a capire la provenienza dei formaggi che ci hanno appena messo nel piatto.
Insomma, ci aspettavamo un luogo dove "conoscere" il cibo ma abbiamo trovato solo un non-luogo dove "consumarlo"; ci aspettavamo un luogo di diffusione della cultura gastronomica, ma abbiamo trovato solo una sorta di supermarket per "ricchi".
Detto questo, non significa che ne usciamo a mani vuote... ehm...
(Inoltre il loro pane a pasta madre è buonissimo!)

Open Baladin.
Tutt'altra esaltazione ci mette in corpo la nuova birreria Open Baladin, accoccolata al centro del largo piazzale Valdo Fusi.
Che dire: esteticamente curatissimo ed allegro come nel tipico stile "mussiano", quasi barocco nell'ostentazione delle bottiglie ma senza appesantirsi e, soprattutto, ricco di contenuti: 40 spine di birre artigianali italiane, cucina "fast" di ottima qualità, personale - una volta tanto! - preparatissimo (e svelto).
Un vero paradiso per noi gente di paese!

Open Baladin

Sotto la Mole.
E' l'unico ristorante che approcciamo nel nostro viaggio, situato - come precisa il nome - esattamente sotto la Mole.
Il locale non è molto grande e l'arredamento, piuttosto essenziale, tende al retrò. Il titolare è una persona gentile ed affabile, e tratta bene pure noi che siamo quelli vestiti peggio.
La lista dei vini si fa apprezzare per l'ampia scelta, anche al bicchiere e al mezzo litro (il che ci permette di provare un po' qua e un po' là). Avremmo gradito però, per orientarci, qualche spiegazione in più da parte della cameriera... ma non si può avere tutto.
In ogni caso, capitiamo benissimo con il Roero Arneis di Filippo Gallino (azienda in quel di Canale), che odora di fiori bianchi, frutta esotica e pietra ed ha un gusto equilibrato e gustosamente sapido.
I piatti offerti, infine, non sono tanti ma ci sembrano tutti di ottimo livello (tranne il vitello tonnato...).
Da leccarsi i baffi, in particolare, il mio antipasto di Robiola di Roccaverano condita con aceto e nocciole ed accompagnata da misticanza di stagione ed il mio primo di tajarin con ragù bianco di faraona e porri, che danno (una volta tanto) la biada ai piatti scelti da quell'altra. Ah!

martedì 15 aprile 2014

Vinitaly tra l'Irpinia ed il Reno.

Un Vinitaly più sfuggente del solito, quest'anno. Le premesse del resto ci sono tutte: l'entrata alla fiera in grande ritardo, le ore pomeridiane occupate da una degustazione guidata e, su tutto, gli acciacchi che ci portiamo dietro e che costringeranno ad un ritorno anticipato...
Insomma, l'unica zona vinicola che riusciamo a visitare non dico con serietà ma, almeno, con un minimo di creanza verso i produttori è stata quella irpina (che quest'anno gode di un padiglione autonomo rispetto a quello campano, sintomo di una nuova meritata visibilità).

Abbiamo così modo di conoscere finalmente il fantomatico Sabino Loffredo, titolare dell'azienda vinicola Pietracupa di Montefredane... rifacendoci così dei fallimentari tentativi di abboccamento dell'estate scorsa, quando eravamo proprio lì in Irpinia speranzosi di fargli una visita! E c'è da dire che rimaniamo abbastanza sorpresi nel trovarci di fronte una persona affabile e gentile, con la faccia quasi "solare", ben lontana dall'immagine accigliata e lugubre che ce n'eravamo fatti!
Tra le altre cose, proviamo finalmente anche il Fiano di Avellino 2013 dei Colli di Lapio (a Lapio, uno degli areali di riferimento per la denominazione), meno "spesso" e con profumi più floreali e montani rispetto a quello di Montefredane (ferma restando la nostra incapacità di valutarlo così giovane: peccato che su in Trentino sia praticamente impossibile procurarsene altre bottiglie per conservarle un po'...).

Poi, grandi soddisfazioni (umane ed enoiche) arrivano, come sempre, dal consorzio dei Diversi Vignaioli Irpini.
E non solo per la possibilità di assaggiare la goduriosa "pizza chiena" della mamma di Antoine Gaita ed il Fiano di Avellino Vigna della Congregazione 2011 di Villa Diamante (dalla grande mineralità, poi fiori, frutta e note tostate, anche se forse meno complesso rispetto ad altre annate assaggiate - ma magari è solo il nostro assaggio ad essere frettoloso). Peraltro la signora Renna-Gaita si ricorda ancora di noi, anche se soltanto come i due pirlotti "arrivati con la guida Slow Wine"...


Ritroviamo anche, infatti, il nostro "beniamino" Raffaele Guastaferro (di Taurasi) e, soprattutto, i suoi vini a base Aglianico. L'Aglianico 2011 è ricco di prugne, di spezie (vaniglia, chiodi di garofano ed altro), di note floreali ed affumicate di cuoio e tabacco, mentre in bocca è polposo, sapido e con un tannino netto ma vellutato.
Il Taurasi Riserva 2007 ci sembra più potente e strutturato, sapido, con un tannino estremamente fine e vellutato, e ci lascia in bocca aromi di confettura di ciliegie e prugne, di cacao, caffè, tabacco, liquirizia. Entrambi sono senz'altro da riprovare con maggiore attenzione...
Così come gli altri due grandi cru di Taurasi che scopriamo oggi, ossia, il Coste ed il Vigne d'Alto dell'azienda agricola Contrade di Taurasi di Enza Lonardo (con sede e vigneti nel Comune di Taurasi).
Insomma, prima o poi dovremo fare un bell'ordine collettivo a questo consorzio.


Dopo la breve gita campana, veniamo subito catapultati nel mezzo della Germania per l'altra "tappa" giornaliera: la degustazione di Riesling VDP.GROSSE LAGE.
Per farla breve, la VDP (acronimo di Verband Deutscher Qualitäts- und Prädikatsweingüter) è un'associazione di produttori tedeschi, che promuove le pratiche tradizionali e sostenibili, nel vigneto e in cantina, e la produzione di vini sia di qualità che espressivi del loro territorio d'origine.
All'esito di una mappatura delle aree vinicole tedesche e dei singoli vigneti, la VDP ha introdotto una classificazione dei vini legata al terroir (per superare la classificazione legale tedesca, basata soltanto sul livello zuccherino delle uve vendemmiate).
Risalendo la scala gerarchica, quindi, i vini vengono distinti in VDP.GUTSWEIN, VDP.ORTSWEIN, VDP.ERSTE LAGE (una sorta di Premier Cru) E VDP.GROSSE LAGE (tipo Grand Cru).


Detto questo, ecco i nostri vini preferiti.

Rheingau Riesling trocken Silberlack GG 2012 di Schloss Johannisberg (a Geisenheim). La vigna si estende su 35 ha, interamente compresi nell'azienda, ha altitudine compresa tra i 114 e i 181 metri s.l.m., pendenze del 45% almeno, esposizionea sud, suolo ricco di quarzite.
Il vino ha un colore paglierino-dorato brillante, dagli odori minerali e floreali, con note di mela cotogna, pesca, limone ed erbe aromatiche. Ha un corpo medio e risulta al contempo abbastanza caldo, morbido, ma anche sottilmente acido e con una netta e prevalente sapidità.

Rheingau Riesling auslese Steinberger 1993 della Hessische Staatsweingüter Kloster Eberbach (ad Eltville am Rhein). Anche questo cru è posseduto interamente dall'azienda, per tutti i suoi 32,4 ha, con pendenza minima del 38%, esposizione a sud e suolo di quarzo pietroso ed ardesia. Il vino è ottenuto da lieviti indigeni e contiene ancora 81,5 g/l di zucchero.
Gode ancora nonostante l'età di un'apparenza dorato-verdolina brillante. Al naso ricorda la pietra, gli idrocarburi (petrolio), lo zafferano, la mela cotogna con anche sentori di fichi secchi e datteri. E' dolce, morbido, caldo e pieno al palato, ma anche ben equilibrato grazie all'acidità medio-leggera ed alla discreta sapidità. Finale di grande persistenza. Ci piace un sacco!


Pfalz Riesling Kastanienbusch GG 2012 di Ökonomierat Rebholz (di Siebeldingen), proviene da 3,5 ha della vigna di Kastanienbusch (che si estende su 40 ha totali), posta a 280-320 metri s.l.m. (è la più alta dello Pfalz) con pendenze del 30-35% ed esposizione a sud, il cui terreno è formato da depositi di granito, ardesia e melafiro; vinificato in acciaio con macerazione sulle bucce di 24 ore.
Il vino è di un paglierino-dorato brillante, con già una grande complessità di profumi: floreali, di frutta (mela e pesca), di agrumi (limone e ananas), di pietra e vegetali. In bocca è morbido e strutturato, con acidità sottile e buona sapidità.

Pfalz Riesling Jesuitengarten GG 1999 di Dr. Bürklin-Wolf (a Wachenheim). La vigna Jesuitengarten ha circa 6 ha, di cui solo 0,6 di proprietà di quest'azienda; la parcella è posta ai piedi del Mittlehaardt a 120-150 metri s.l.m., con esposizione ad est e pendenza del 5-15%, su suolo basaltico, pietroso, inframmezzato da strati di argilla e sabbia. Il vino fermenta e matura in botti da 25 hl.
Nel vino prevalgono i profumi terziari che rimandano al mondo chimico, alla plastica, agli idrocarburi, accanto alle note pietre e frutta, che in bocca si arricchiscono di rimandi speziati. Il suo meglio lo dà comunque al palato, dove l'acidità sottile e la sapidità medio-leggera si fondono con grande armonia e finezza nella morbidezza e nel calore del corpo.
E' senz'altro il nostro preferito assieme allo Steinberger.


Mosel Riesling GG Juffer-Sonnenuhr 2012 di Fritz Haag (di Brauneberg). La vigna si estense du 3,7 ha (dei 10,5 ha totali della Juffer-Sonnenur), da 110 a 220 metri s.l.m. e pendenze del 60-70%, pendenza a sud, sud-ovest, su un terreno ricco di ardesia.
I profumi sono floreali, minerali, di frutta esotica e frutta bianca acerba, cui si aggiungono in bocca note di erbe aromatiche. Meno corposo degli altri, è dotato però di una sottile e profonda vena acida e buona sapidità, con un finale leggermente amaro ed aromatico.

Mosel Riesling spätlese Graacher Himmelreich 2012 di Willi Schaefer (a Graach). Himmelreich è un cru di 56,7 ha, dei quali 2 sono occupati dal vigneto aziendale, su pendenza dal 60% ed esposizione a sud, con un suolo ricco di ardesia.
E' dolce ma equilibratissimo grazie all'acidità. Pieno e potente, sa di pesche, albicocche appassite, zafferano e pietra, di grande armonia.

E così, con la bocca estasiata e satura, torniamo a casa...

giovedì 10 aprile 2014

Il Caprificio ed il Vignaiolo.

Stasera ci godiamo il bottino conquistato a nord di Trento, dal Vignaiolo Fanti ed da Il Caprificio di Onorato Matteo.
Il Vignaiolo (Alessandro) Fanti ha una piccola ma rinomata cantina a Pressano (produce circa 16.000 bottiglie all'anno). La struttura è proprio nel centro del paese, nascosta dietro ad un antico arco con i suoi scorci idilliaci e quasi bucolici.
Lui è una persona davvero gradevole, di carattere umile e palesemente appassionata per il suo lavoro.
Nel presentarci le sue bottiglie, ci offre anche qualche interessante prospettiva sul mondo viti-vinicolo trentino: noi anime belle non sospettavamo, ad esempio, che i vignaioli locali trovassero così tanta difficoltà a far conoscere ai potenziali acquirenti, privati e ristoratori, il loro (notevole) livello qualitativo.
L'immagine diffusa del Trentino vinicolo - scopriamo infatti - non è quella delle "eccellenze di montagna" (che pure ci sembra rimbombare ovunque nel marketing ufficiale) ma è, piuttosto, quella della "terra di nessuno" dei vini a basso costo! Questo rispecchiano i supermercati, e questo pensa il pubblico, anche trentino!


Tornando all'azienda: questa comprende circa 4 ha di vigneti, per la gran parte collocati sopra l'abitato di Pressano, sui suoi pendii di roccia arenaria coperta da terra rossa argillosa mista a calcare.
Alcune ulteriori parcelle si trovano a Vigo Meano e sono caratterizzate da un terreno più porfirico ed argilloso, dal quale proviene il pregiato vino "Isidor".
La loro conduzione è biologica certificata, con alcune pratiche prese in prestito dalla biodinamica.
Tutti i tralci delle viti, va detto peraltro, vengono ripiegati da Alessandro ad uno ad uno per evitare le cimature e salvaguardare, così, la vitalità delle piante.
Ultima nota: la solforosa (di cui ormai si parla spessissimo) è esclusa dal processo produttivo, se non in piccole quantità appena prima dell'imbottigliamento.


La bottiglia che stappiamo stasera a cena è il suo Manzoni bianco 2011.
Per dire qualcosa sulla produzione: il mosto è stato macerato sulle bucce per circa 12 ore, poi vinificato e fatto maturare in acciaio, con un lunghissimo affinamento (di almeno 10 mesi) sulle fecce dei lieviti, fatte ossidare separatamente e poi reimmesse nei tini dall'alto, tenendole continuamente in sospensione.
Il vino si presenta con un colore paglierino poco intenso ma luminoso.
Ha profumi nettamente minerari e di frutta secca, amalgamati a note di burro, di vaniglia e curcuma, con sentori agrumati che emergono solo in bocca.
Il corpo è medio, ed entra abbastanza morbido e leggermente caldo, assieme però ad una netta tensione data dall'elevata acidità e dalla sapidità. Ne risulta un bell'equilibrio, per una bevuta piena, appagante e persistente, che invoglia continuamente un altro sorso.


Il secondo produttore della serata è il Caprificio di Onorato Matteo, piccola impresa agricola di Segonzano, in Val di Cembra, dedita all'allevamento di capre e galline ed alla vendita dei loro prodotti: uova, insaccati, latte, latticini e formaggio.
Il titolare, Matteo, è una persona gentile, sorridente, limpida e molto ospitale (insomma: pure lui ci ha fatto una bellissima impressione) ma soprattutto produce del buon cacio, con esperienza e passione.
Lui, d'altronde, non ha rilevato dalla famiglia un'attività già avviata ma, passo dopo passo, ha costruito la sua professionalità e la sua azienda partendo da zero: nel senso che, dopo gli studi all'Istituto Agrario di San Michele (ora Fondazione Mach), nel 2006 ha - letteralmente - fabbricato la sua stalla, la casera e tutti gli altri edifici aziendali.
Ora come ora, ha circa 50 capre da latte, alcune di razza Saanen (che garantiscono più quantità di latte ma di minore resa casearia), altre Camosciate delle Alpi (che danno minor latte, però più ricco di caseina), altre infine frutto di un incrocio fra le razze precedenti, con lo scopo di ottimizzare produttività e rendimento.
Gli animali sono nutriti con fieno ed altri concentrati e vivono un po' nelle ampie stalle ed un po' nel cortile a cielo aperto. L'obiettivo di Matteo sarebbe però quello di ricavare un'area al pascolo sufficientemente ampia da poterle lasciare tutte libere per l'intero giorno.
In ogni caso, sono le capre più affettuose e serene che abbiamo mai incontrato...



La loro mungitura avviene due volte al dì e la lavorazione ogni due giorni, impiegando il latte di quattro munte.
Tra gli svariati prodotti che Matteo ne ricava, noi ci portiamo a casa una caciotta fresca ed un cacio più stagionato, entrambi ovviamente a latte caprino.

La caciotta fresca è ottenuta da latte intero, riscaldato prima a 20°C (per l'aggiunta di fermenti selezionati) e poi a 36°C; a quel punto viene immesso il caglio vaccino liquido che agisce già in 15 minuti.
La cagliata è rotta con la lira a pezzi relativamente grossi e, successivamente, riscaldata a 40°C.
Seguono l'estrazione, la messa in forma (in cestelli di plastica) la breve maturazione nella cella frigorifera, con circa 6°C di temperatura ed il 90% umidità.
Non viene effettuata alcuna pulizia durante la sosta in cella; solo a maturazione ultimata le montagne di muffa verranno tolte.
Il formaggio ha forma ovoidale, con crosta color paglierino scarico, elastica e sottile.
La pasta ha colore avorio con diffuse occhiature microscopiche e rade occhiature medio-grandi di forma irregolare. La struttura è umida, tenera, deformabile e abbastanza elastica.
I profumi sono abbastanza tenui ma puliti, per lo più di latte fresco e di latte acido al naso, mentre la nota animale affiora più che altro in bocca in modo discreto. I sapori sono in grande equilibrio tra dolcezza, acidità e sapidità medio-basse. E' infine leggermente adesivo e discretamente solubile.


Il formaggio di media stagionatura (circa 4 mesi) ha una preparazione del tutto analoga al precedente, tranne che per la rottura della cagliata, effettuata con lo spino ed in frammenti più piccoli.
La sua forma è cilindrica e più grande della precedente (saranno 20 cm di diametro e 7 di altezza), con la faccia superiore convessa in modo irregolare.
La crosta si presenta di colore irregolare: ocra di fondo e un sacco di muffe bianche, verdi e rosse sopra. E' rigida, rugosa e cosparsa di piccole protuberanze regolari derivanti dalla formatura nel cestello forato. Presenta alcune lunghe fratture, dalle quali tuttavia - fortunatamente - la muffa non è penetrata all'interno.
Le fratture discendono verticalmente, in profondità, attraverso la pasta, che è invece priva di occhiature. Il suo colore è avorio, ha uno spesso sottocrosta paglierino ed è dura, rigida e compatta.
Di odore intenso, rimanda all'animale di capra, al fieno ed alla frutta secca, con nette note tostate e quasi di dado e sentori lievi di muffa. Non è comunque aggressivo o sgraziato ma, anzi, piacevolmente intrigante.
Il sapore invece è dolce, leggermente acido e soprattutto molto (troppo) sapido, dal finale lievemente amaro. La struttura è secca, un po' adesiva e poco solubile (meno di quanto ci saremmo aspettati).
Peccato per la sapidità eccessiva, che toglie equilibrio ed armonia gusto-olfattiva, sovrastando su tutto il resto.

L'abbinamento con l'Incrocio Manzoni riesce bene con la caciotta fresca, dato che il palato, ricoperto dalla leggera patina lasciata dal formaggio, riceve dal vino una buona ripulita. Al contempo il cacio, nonostante la sua freschezza e delicatezza, non viene completamente oscurato dal vino ma continua con lui in modo abbastanza armonico.

giovedì 3 aprile 2014

Anisos e croste lavate.

Ecco, sull'onda dell'entusiasmo, non abbiamo dato tempo al tempo... lanciandoci subito sulla seconda bottiglia di Eugenio Rosi: il VdD IGT Anisos 2011.
Si tratta di un uvaggio di pinot bianco, nosiola e chardonnay, coltivati in Vallarsa: il pinot bianco e lo chardonnay su terreni sciolti e ghiaioso-calcarei, il primo a 550 metri s.l.m. ed il secondo addirittura a 750 metri di altitudine; la nosiola proviene da terreni limosi e calcarei posti a 400 metri s.l.m.
In vigna non viene effettuato alcun trattamento chimico.
La vinificazione avviene grazie ai soli lieviti indigeni, con macerazione sulle vinacce a temperatura di cantina, senza alcuna aggiunta di solfiti se non per la stabilizzazione prima dell'imbottigliamento. Poi, per un anno, il vino viene fatto maturare in botti di rovere da 500 litri.


Ha un colore tra il dorato e l'ottone, di media intensità, sembrerebbe un vino antico non fosse per la sua luminosità.
I profumi sono un calderone di affascinante complessità: in primo piano la pietra, il burro e gli aromi di origano e timo, poi note di limone e pompelmo e, alternandosi, sentori di legno, di vaniglia e di mandorle, arricchiti in bocca da note di zolfo.
Al palato è morbido, di media struttura, con acidità sottile ma persistente accompagnata da una discreta sapidità. E' vivo ma elegante ed armonioso, persistente e soprattutto molto buono!


Si accompagna bene, con concordanza di profumi e pulizia del palato, con il Gruyère DOP "LeSuperbe" del caseificio Lustenberger + Dürst. L'azienda ha sede a Cham, nel Canton Zugo... ma la zona di produzione del formaggio è invece quella della Svizzera occidentale! Boh...
Il cacio è ottenuto da latte vaccino crudo ed intero (ha il 45% grasso sulla s.s.), addizionato con siero-innesto e caglio vaccino. La coagulazione dura 35-40 minuti, poi la cagliata è rotta (con la lira) in frammenti grandi come un chicco di mais. Segue la cottura a 55°C per 45-50 minuti, dopo di che la cagliata è messa nelle forme e sottoposta a pressatura (con pesi che raggiungono anche i 900kg!).
Dopo la salamoia, le forme - che pesano dai 25 ai 40 kg - sono messe in cantine a 13-14°C di temperatura, dove verranno periodicamente rivoltate e lavate con acqua leggermente salata.
Il nostro pezzo avrà una stagionatura di 5-6 mesi.
La sua crosta è di colore ocra, con diffuse muffe bianche, semidura e ruvida.
La pasta invece è di un paglierino medio-leggero, senza tracce di occhiatura, di struttura semidura, compatta, deformabile e con una certa elasticità.
I suoi profumi rimandano al burro fuso, al vegetale secco, alle verdure lesse e (un po' troppo forse) al formaggino fuso.
In bocca ha una preminente dolcezza, poi continua con una leggera acidità ed una media-leggera sapidità che fa un po' da contraltare. E' deformabile e molto molto solubile, anche se lascia una leggera patina sulla lingua che invoca il nostro vino per una buona pulizia. C'è da dire che la persistenza non è poi così male e quindi non si fa sovrastare dall'Anisos.

Un po' sgraziato invece è l'abbinamento con la Fontina DOP della Cooperativa Produttori Latte e Fontina (di St. Christophe). Viene utilizzato il latte intero e crudo delle Pezzate Rosse Valdostane, addizionato con fermenti e fatto coagulare a 36°C con caglio vaccino per quasi un'ora.
La cagliata è frammentata in pezzi grandi un chicco di mais e semicotta a 47-48°C; dopo una breve maturazione è riposta nelle fascere e pressata per circa 12 ore.
La stagionatura avviene all'interno di grotte umide (85%) e fredde (circa 10°C), con periodiche spazzolature alternate a salature.
La superficie è di colore paglierino, abbastanza secca, morbida ed elastica.
La pasta - tra il paglierino e l'avorio - è compatta, elastica, con una leggera occhiatura ad occhio di pernice nella parte superiore.
Al naso ha il tipico odore animale (di stalla) delle croste lavate, unito al latte cotto, alle rape ed al fieno (che si fa ben più evidente in bocca).
Ha una media dolcezza, seguita dall'acidità medio-leggera e superata da una sapidità medio-elevata, con una lieve amarezza finale. E' tenero, deformabile, grumoso ma con una buona solubilità.